una delle più importanti retrospettive sinora dedicate al grande artista americano.
Purtroppo, nonostante il tono dei comunicati stampa, la mostra non si è dimostrata all'altezza di quanto visto ormai più di 10 anni fa al Castello di Rivoli, dove gli spazi e la bellezza della sede contribuivano a far meglio apprezzare l'opera di Keith Haring: c'è poco da fare, opere grandi vanno viste in spazi altrettando grandi.
Mi è sfuggito anche il significato del titolo della mostra, visto che di show non c'era molto, e dire che su un artista così pop di materia da elaborare anche in discorsi oltre la tipica mostra ce n'era non poca...
Una nota piacevole è invece la colonna sonora, un megamix degno di 2 Many DJ's realizzato dal DJ del Plastic Nicola Guiducci insieme a Lorenzo Ferrero, disponibile anche online - unica vera zampata dell'organizzazione - qui.
Dentro ci trovate tutto quanto fa anni '80 a New York, dal rap oldschool di Grand Master Flash e Kurtis Blow a Blondie, parecchi scampoli brevissimi di originali inframmezzati a riduzioni delle melodie della Smalltown Boy o Papa Don't Preach di turno. Poi Talking Heads ovunque, fino a composizioni più in tema da mostra tendenti ai pezzi più da ambiente del Moby di Play.
Forse questa musica dice più di Keith Haring delle tante parole presenti sui pannelli informativi dell'esposizione, peraltro davvero poco leggibili grazie all'ideona di piazzarle su uno sfondo grigino che riproduceva come texture il marchio di fabbrica, e purtroppo per alcuni unica cifra stilistica dell'artista: omini e cagnolini.
Keith Haring, Triennale